Sa Pratica
( l’esperta)
Sa Pratica, nella cultura popolare sarda, indica e designa
una donna che ricopre diversi ruoli e svolge diverse mansioni e compiti a
seconda dell’occorrenza e di determinati casi.
Per ogni ruolo le veniva attribuito un nome specifico:
sa levadorà: levatrice, forniva assistenza alle gestanti
durante la gravidanza;
sa megheinosa: s’incantadora: donna delle “medicine”,
assisteva e curava i malati,
sopprimeva i nascituri deformi, estraeva denti,guariva i
mali con formule magiche, malocchio, scopriva i furti;
s’accabbadòra: colei che induce alla morte, alla fine;
s’attitadora: colei che praticava la nenia, il lamento
funebre.
Sa levadorà
La nascita di un bambino comprendeva diversi rituali; in
primo luogo nella casa del nascituro non potevano entrare persone con reliquie
o che in passato avessero ricevuto l’Estrema Unzione, per preservare la nascita
da sortilegi e dal male. Si accendeva
una candela benedetta prima delle doglie.
Alla nascita si affiggevano immagini sacre sulle porte dalla
casa per impedire l’accesso alle streghe e agli spiriti maligni.
In alcuni casi
veniva posta una scopa di saggina o un piatto di grano fuori dalla stanza del
nascituro di modo che le megere, prima di entrare, dovessero contare i rametti
o i chicchi, passando così tutta la notte e raggiungendo il giorno senza creare
malefici.
Secondo alcune usanze
si usava seppellire un cane vivo sotto la casa per assicurare lunga vita.
Dopo il parto, per prevenire il neonato dal male si bruciava
la placenta, si legava l’ombelico del bambino con un filo intrecciato dalla madre o la
stessa placenta veniva conservata come amuleto.
Il cordone ombelicale rappresentava la porta dell’anima
attraverso il quale la madre alimentava lo spirito purificandolo dai malefici e
dal malocchio.
Sulla culla veniva apposto un amuleto “su cocco” o amuleti
vari, “pungas o pera de s’ogiu.
Sa accabbadòra
La morte
Anche per la morte venivano eliminati, per decisione
famigliare, dalla casa dell’interessato oggetti, reliquie e amuleti sacri
(rezettas, pungus) perchè impedivano all’anima di uscire dal corpo, in modo da
abbreviare l’agonia del malato.
Se necessario si utilizzava il “supremo rimedio”, un giogo
(arnese agricolo), chiamato juale o juvale: un aratro o un carro a buoi posto
sotto la cervice del moribondo, conservato in un angolo del letto senza mai
bruciarlo.
Diceva il detto: non podde morrer si non bi pònini in
cabizza unu juale;
duos montes paris paris, duas cannastreme, treme, si lu ponnes in
cabizza, prus lestru ti nde moris.
Il giogo, talvolta poteva essere utilizzato anche per le
nascite per facilitare il parto e proteggere il neonato dalle SURBILES (mosche malefiche che succhiavano il
sangue). Con il tempo su juale diventa su jualeddu, legno d’olivo , d’oveva
essere tagliato in chiesa durante la domenica delle palme o di Giovedì Santo al
canto del Passio.
Seguiva l’estrema unzione durante la quale tutti restavano
in piedi con la presenza del sacerdote in cotta e stola sotto l’ombrella, con
chierichetti e donne oranti.
Se l’agonia del moribondo aumentava, i famigliari venivano
allontanati dalla stanza come scusa per far intervenire l’accabbadora.
L’esistenza della
accabbadòra rimane un tabù in quanto non
vi sono documenti scritti che ne testimoniano l’agire, in parte perché
trattandosi di un atto non giuridico, il rito dell’accabbadòra, veniva
praticato con estrema segretezza all’interno delle abitazioni e senza
testimoni; in parte perché l’ideologia corrente del clero sacro considerava
l’atto dell’accabbadòra un servizio
richiesto e offerto a scopo umanitario, senza necessitata documentazione.
ACCABBADòRA viene da accabbàre che significa fine,
terminare; accabbu, fine, termine; dal catalano accabbar che significa portare
a fine, dare fine (ad una cosa terminata), dare l’ultima mano (ad una cosa),
arrivare all’esaurimento (di una cosa) .
Secondo alcuni studiosi accabbadòras viene dal verbo
accabare, la cui radice, su cabu (capo) indica dare al o dare sul capo o
condurre a fine qualche bisogna.
Oggi accabbadòra viene comunemente tradotto in ucciditrice
dal fenicio che vuol dire porre fine.
È importante considerare sa accabbadòra come colei che pone
fine, non come colei che uccide. Lei è colei che aiuta a morire.
Secondo il racconto di Stintino la femmina accabbadòra era
una vecchia donna che agiva al calar
della sera, entrava in casa, accanto al capezzale, accarezzava la testa del
malato, cantava il rosario, infine , dava una botta secca sul capo del malato
con un’attrezzo avvolto nell’Orbace. In altre situazioni, l’accabbadòra
chiudeva la bocca del malato con il palmo della mano, stringendo forte le
narici con le dita e, ottenuto l’effetto, interrompeva la nenia, si copriva
capo e volto con fazzoletto nero e lasciava la casa sparendo.
L’ accabbadòra veniva chiamata solo nel caso in cui il
defunto era ridotto allo stremo; secondo alcune testimonianze essa elargiva un
ultimo tentativo di salvezza: avvolgeva
il malato in un lenzuolo zuppo di acqua fredda, o lo si immergeva in un
contenitore di rame adatta. La reazione tra il gelo dell’acqua ed il calore
corporeo avrebbe creato per effetto una broncopolmonite fulminea che avrebbe
posto fine al tormento del malato liberandolo dall’agonia e dal male.
Sa accabbadòra arrivava, come già detto, di notte con la
formula DEU CI SIA,
allontanava tutti con un gesto e, sola, assestava un colpo
di “mazzolu” sulla testa del malato, talvolta bastava la semplice pressione del
cuscino sul viso.
Su mazzolu è un grosso martello ricavato da un robusto ramo
in legno d’olivastro tagliato ai lati, con un prolungamento che funge da
manico.
Dopo il decesso, abbandonava la casa senza farsi vedere o
notare.
Sa attitadòra
La veglia
La veglia era caratterizzata da s’attitu , su teu o
s’attidu, la manifestazione di dolore dai famigliari o commissionate alla
femmine attitadòras.
Quest’ultime potevano essere donne di paese note per la loro
ricchezza o bellezza e chiamate per solidarietà (talvolta pagate) a vegliare
sul defunto, una sorta di prefiche.
Attitu dal latino significa guaito di stupore; dal greco
ototòtei grido di dolore.
Le attitadòras cantavano una nenia in virtù del morto,
accentuata spesso da grida e e gesti di dolore( strapparsi i capelli) di qui la
frase “est preghende a pilu isortu” (sta piangendo con i capelli sciolti) o,
per augurare il male “ancuvajas a pilu tirau” ( che tu possa andare
strappandoti i capelli).
Le attitadòras spesso si rivolgevano al defunto come se
fosse ancora in vita con frasi del tipo “mi stai sentendo?” ; tale usanza viene
tramandata dalla cultura romana e si definisce nella formula LAS TRES VEUS, le
tre voci, triplice domanda nei confronti del defunto, e alla mancata risposta
veniva constatato il decesso.
Canto d’attitu: po unu coltu e trigu
Prangu anzenu maridu
Ne peldo e ne balenzo
Maridu anzenu prangu
L’attitu era, naturalmente un canto differente a seconda del
tipo di morte ; in caso di uccisione, il canto era vendicativo ed esortava
all’odio ed alla violenza; per questo fu vietato e bandito dalla legge.
Durante la veglia veniva preparata la cena del morto, spesso
ad opera dei vicini, amici o compaesani. Questa veniva posta accanto al morto
per evitare che andasse all’aldilà a stomaco vuoto.
Nel caso di omicidio in alcune località della Sardegna,
consisteva nell’offrire cuore, fegato e intestino alla vedove, che doveva
mangiarlo per consumare la vendetta.
Il funerale
Assistevano al funerale gli amici, i parenti meno stretti e
i compaesani (sos confrades), non vi partecipavano i famigliari, costretti a
casa per le condoglianze.
Queste consistevano in una stretta di mano o per morte
violenta in un abbraccio o bacio e la formula rituale “ deus bos diat
passentsia” cui si rispondeva “ deus bos
paghede sos passos e a tottu kie l’hada accumpagnadu” .
La messa veniva designata sotto il nome di “corpores
presenti” al canto del profunde,
miserère, e il benedìctus accompagnato poi dai passi del
corteo e dal suonpo della campana.
Il lutto
Dopo il funerale veniva distribuito il pane “su coccoi” e la
sera veniva offerta la cena ai partecipanti.
A Bitti si preparava un pane detto GHIMISONE ,un pane povero
che simboleggiava la povertà interiore a seguito della perdita della persona
cara. Il nome è anche quello di un lievito e indica infatti il lievito di una
nuova vita.
Durante il lutto venivano chiuse porte e finestre, coperti
gli specchi e fatto sparire oggetti frivoli. Accanto al defunto veniva posta sa
salantia: un bicchiere pieno d’olio nel quale galeggiava un lumino in latta o
sughero.
Venivano rimandate eventuali celebrazioni (battesimi,
matrimoni ecc ecc.).
Le vedove, rigorosamente vestite di nero, non uscivano di
casa per un anno e più, o sino al prossimo matrimonio.
Per il vedovo il lutto durava meno.
Qualcuno può aiutarmi ,per favore? Sto cercando canti popolari sardi che parlino della accabbadora...se qualcuno li conosce...grazie,risponda qui.
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